Tra la fine degli anni 70 e l’inizio degli 80, Bologna era una città ribelle e innovativa, una vivace fucina di avanguardie artistiche e culturali dagli affascinanti quanto esplosivi risvolti dark.

In questa Babilonia d’Italia si muoveva Francesca Alinovi, a quei tempi una delle critiche d’arte più conosciute di Bologna e di tutto il paese; Francesca era una giovane donna che aveva vissuto fino a quel momento una vita travolgente e che, grazie a un grande fiuto per le novità e le tendenze più interessanti, era riuscita a farsi un nome nell’ambiente artistico.

Ma a soli 35 anni, nel pieno della sua carriera, Francesca Alinovi venne uccisa. Il suo corpo senza vita, martoriato da quarantasette coltellate, fu ritrovato il 12 giugno 1983, in un appartamento in Via del Riccio a Bologna. Il suo misterioso omicidio, passato alla storia come “il delitto del DAMS”, scatenò il morboso interesse dell’opinione pubblica verso la vita di Francesca, ma fece finire sotto i riflettori anche il DAMS, il neonato corso di laurea in Discipline delle arti, della musica e dello spettacolo che Francesca aveva contribuito a fondare, e l’intera Bologna. I dubbi intorno a questo caso di cronaca non furono mai del tutto chiariti, e la vicenda dell’uccisione di Francesca Alinovi resta ancora oggi misteriosa.

Babylon Dahlia, il podcast del true crime in sei puntate prodotto da Chora Media in esclusiva per Audible Original, racconta proprio questa storia; a quasi 40 anni dal fatto, la musicista e scrittrice Grazia Varesani e il consulente editoriale e redattore Tommaso De Lorenzis ci accompagnano in un viaggio alla scoperta non solo del caso della Alinovi e di tutti i suoi risvolti ed enigmi, ma anche dell’irripetibile contesto culturale e artistico in cui è avvenuto l’omicidio.

Babylon Dahlia

Per farci raccontare qualcosa di più su Babylon Dahlia abbiamo fatto qualche domanda a uno dei due autori del podcast, Tommaso De Lorenzis.

PostBlogIt Tommaso de Lorenzis

Tommaso, raccontaci come nasce l’idea di affrontare in un podcast il caso di Francesca Alinovi. Perché tu e Grazia vi siete appassionati così tanto a questa storia?

L’omicidio di Francesca Alinovi è uno di quei fatti che – per ragioni molteplici – assume un carattere simbolico. È come se il 12 giugno 1983, a Bologna, si chiudesse una fase: quell’età di mezzo sospesa tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta, un tempo ricco di possibilità, ma anche di pesanti contraddizioni.
Quando Francesca muore, si è già spenta l’eco dell’insurrezione del marzo ’77, apice dello scontro frontale tra il movimento di estrema sinistra e il Partito comunista al potere in città. Ma sta finendo anche la fase immediatamente successiva che lo scrittore Pier Vittorio Tondelli chiama il “weekend postmoderno”: anni irripetibili, di intensa sperimentazione artistica e di attese disattese, anni ormai dominati dal senso di una rivoluzione mancata.Ovviamente nessun evento è di per sé una cesura. Però, alcuni fatti – soprattutto alcuni fatti di sangue – tendono a diventare spartiacque tra un “prima” e un “dopo”. A noi interessava raccontare la delusione, il disincanto, perfino la disperazione, che accompagna certe congiunture terminali. Per questo abbiamo intrecciato due storie: quella di una donna brillante, iconica, astro nascente del panorama culturale italiano, destinata a rimanere preda dei suoi fantasmi, e quella di una città, che sembrava diversa da tutte le altre e, invece, finisce per scivolare nel Riflusso e nella normalizzazione dei pieni anni Ottanta.

Una città che non è come le altre

Poi c’erano anche delle motivazioni personali: il legame tanto forte quanto complicato che sia io sia Grazia abbiamo con Bologna. Io ci ho vissuto per quasi quindici anni. Lei ci è nata e cresciuta, e all’ombra delle torri ha deciso di ambientare i suoi romanzi noir. Per Grazia, Bologna è una “dipendenza”. Per entrambi il rapporto con la città non è pacificato. Sarà perché la “Rossa” è un generatore esponenziale di aspirazioni deluse e promesse non mantenute. Comunque, questo podcast – almeno da parte mia – è stato il tentativo di mettermi a posto con una città che ho amato tantissimo, ma da cui sono andato via carico di frustrazione.

Quanto è stato difficile parlare di un caso di cronaca avvenuto 40 anni fa? Da dove siete partiti per cercare le informazioni e quando e come avete deciso che ci fosse abbastanza materiale per una serie?

Conoscevamo entrambi il caso, perché ce n’eravamo occupati – ciascuno per proprio conto – in passato. Quindi abbiamo ripreso appunti e materiali, riorganizzandoli in vista di una narrazione che doveva partire dal perimetro del genere true crime per trascenderlo. Volevamo sottrarre la figura di Francesca Alinovi al vuoto che, per troppo tempo, l’ha inghiottita. O – meglio – volevamo liberarla dal ruolo di vittima eccellente di un delitto che quarant’anni fa ha avuto una straordinaria risonanza mediatica, dividendo Bologna – e l’Italia – tra colpevolisti e innocentisti. Va detto che nella stessa direzione si è mossa Veronica Santi col bellissimo documentario I am not alone anyway che restituisce lo spessore intellettuale di Francesca Alinovi. Abbiamo lavorato partendo dalle fonti: intanto, da quelle dirette, che per un podcast sono fondamentali. Quindi, abbiamo intervistato chi aveva conosciuto Francesca o attraversato la scena bolognese a cavallo tra la fine dei Settanta e l’inizio degli Ottanta.

La Frontiera

Ovviamente conoscevamo le fonti giudiziarie, gli atti dei processi che avevano coinvolto Francesco Ciancabilla come imputato per l’omicidio Alinovi. Abbiamo anche spulciato gli archivi dei giornali dell’epoca. Allora come oggi, in una vicenda di cronaca nera i media hanno un ruolo decisivo e la narrazione sul delitto Alinovi assume da subito toni molto precisi. I giornali danno voce alla voglia di normalizzazione che, in quel momento, pervade Bologna. Così, sul banco dell’imputato, nel processo mediatico, finisce per sedere l’intera scena artistica e contro-culturale della città. Era importante restituire quest’atmosfera per mostrare come il delitto di via del Riccio abbia marcato una cesura.

In lavori di questo tipo non c’è mai un momento in cui si è certi che la ricerca documentaria è finita. Anzi, pensi sempre il contrario: che avresti dovuto sentire una fonte in più, consultare un altro giornale, controllare qualche altro archivio. È come tirare una pietra su una superficie liquida: si allargano cerchi concentrici e ognuno di quei cerchi è un’occasione narrativa. Diciamo che arriva un momento in cui bisogna fermarsi. Anzi: in cui bisogna imporsi di scrivere.

Il podcast si caratterizza per un’alternanza di registri e narrazioni, dal true crime all’analisi storica e culturale passando per le testimonianze dirette dei protagonisti del periodo. Quali sono gli ingredienti principali che avete voluto utilizzare nella serie e come li avete dosati per creare la giusta atmosfera e ritmo?

La prima scelta è stata eleggere Bologna a protagonista diversamente animata del racconto. In questo senso ci aiutava l’esperienza che io e Grazia abbiamo nel campo del genere poliziesco. Il giallo italiano, infatti, vanta – fin dagli anni Novanta – una fortissima attenzione al contesto territoriale che non è mai una semplice ambientazione, bensì un personaggio a tutto tondo. Poi, puntavamo a comporre una narrazione corale, che restituisse un universo complesso, agitato e irregolare. Perciò, abbiamo costruito un nutrito parterre di comprimari. Nella storia, queste figure sono titolari di precise linee narrative, che intersecano in più punti la linea principale. Perfino le persone che abbiamo intervistato sono, per certi versi, dei “personaggi”, che hanno una precisa evoluzione drammatica: arrivano a Bologna, vivono un momento storico irripetibile, lo guardano tramontare e poi continuano a fare la loro vita.

Il cerchio si stringe

Tutti questi elementi concorrono a creare una fitta trama su cui è possibile generare l’effetto suspense, impostare i punti di svolta e organizzare i colpi di scena. Abbiamo anche usato la tecnica dell’amplificazione, tornando in più occasioni su alcuni snodi narrativi per aggiungere ogni volta un dettaglio o per mostrare un fatto da una prospettiva diversa.

Come è stata l’esperienza di lavoro in tandem con Grazia e come vi siete divisi la scrittura del podcast?

Mi sono formato nella Bologna degli anni Novanta, un contesto in cui – tra fanzine, centri sociali, collettivi universitari, riviste corsare e produzioni underground – il lavoro collettivo e la scrittura a più mani erano pratica quotidiana. L’esempio più celebre di questa tensione è il nome multiplo Luther Blissett sotto le cui insegne collaboravano molteplici singolarità. Lo stesso lavoro editoriale, che ho fatto per molto tempo, è sempre più un lavoro d’equipe in cui gli editor tendono a essere coinvolti già nel processo ideativo.

Francesca e Francesco

Io e Grazia ci conosciamo da vent’anni, quindi lavorare insieme è stato facile. Siamo partiti da un primo testo condiviso, composto dai materiali che avevamo raccolto in passato, in cui fissavamo gli elementi principali della storia. Poi, abbiamo ragionato su come articolare quel testo di partenza nello schema delle sei puntate. Forse questa è stata la sfida più difficile, perché bisognava trovare il punto di equilibrio tra narrazione corale ed esigenze del true crime. Ci hanno aiutato moltissimo Alessia Rafanelli, Marco Villa e Matteo Miavaldi. Quando abbiamo definito lo schema, è stato tutto più semplice.
Grazia ha messo il suo sguardo e la sua vicinanza all’oggetto del racconto, io ho lavorato sullo sviluppo delle dinamiche narrative.

Raccontaci qualcosa sugli ospiti del podcast, le persone che avete scelto per aiutarvi ad inquadrare il fascino della protagonista e di quel periodo.

Abbiamo scelto le voci di persone che avevano conosciuto Francesca, o ne avevano studiato il lavoro, e voci di chi aveva seguito la lunghissima vicenda giudiziaria legata all’omicidio di via del Riccio. Roberto Grandi ha insegnato al DAMS dalla fondazione e si può dire che è stato uno dei pionieri che fecero l’impresa. Igor Tuveri in arte Igort è uno dei maggiori fumettisti italiani, noto sulla scena internazionale, e ha conosciuto bene sia Francesca sia la Bologna Babilonia d’Italia. Marcello Jori è un noto pittore ed è stato uno degli amici più cari di Francesca. Nel 1983, Aldo Balzanelli era un giovane cronista della redazione bolognese dell’Ansa e ha seguito tutti gli sviluppi giudiziari del caso Alinovi. Fabiola Naldi insegna Fenomenologia dell’arte contemporanea all’università di Bologna ed è una delle principali studiose di Francesca Alinovi: ci ha aiutato a spingerci nel mondo della street art di fine Settanta e a inquadrare il prezioso lascito culturale di Francesca.

Il serial killer del DAMS

Allo psichiatra forense Corrado De Rosa abbiamo chiesto un parere su una perizia psichiatrica e sulla dipendenza da sostanze stupefacenti. Marco Zanardi, invece, è il titolare di un noto salone da parrucchiere aperto ancora oggi al centro di Bologna. Quel salone ha un nome stranissimo che – per estensione – è diventato il soprannome di Marco: si chiama “Orea Malià”. Nei primi anni Ottanta, da Orea Malià non si facevano solo i capelli. Quello era il posto dove succedevano le cose. Da lì passava tutta la scena creativa bolognese. Ed è stato Marco a scolpire la celebre acconciatura dark di Francesca, consumando il rito di passaggio che trasformò la ragazza di buona famiglia venuta da Parma in un’icona dark e new wave del “weekend postmoderno”.

Parliamo di Bologna, l’altra grande protagonista, insieme a Francesca Alinovi, di Babylon Dahlia: che città era alla fine degli anni 70? Cos'è rimasto oggi (se qualcosa è rimasto) dello spirito sovversivo e avanguardista che la caratterizzava in quegli anni?

Nella sua storia, Bologna ha conosciuto più di un periodo di intenso fermento. Anche gli anni Novanta sono stati un momento decisivo per la sperimentazione narrativa, musicale, contro-culturale e perfino tecnologica, se pensiamo che proprio in quel periodo – sotto le torri – erano attivi alcuni dei protagonisti del primissimo worldwideweb. Nei Nineties, Bologna aveva l’underground più ricco e audace d’Italia: una scena importante, capace di proiettarsi a livello internazionale. Surfavamo l’onda lunga del movimento studentesco della Pantera, che nel 1990 si era opposto al progetto di riforma universitaria dell’allora ministro Antonio Ruberti. Anche di questo si parla in Babylon Dahlia.

Non penso che lo spirito sovversivo debba passare in eredità. La Bologna di fine Settanta registrava l’emersione di nuove soggettività, quel lavoro intellettuale massificato che si percepiva ai margini della cittadinanza e che organizzava il suo assalto al cielo dotandosi di precisi strumenti di agitazione politica e rottura dei codici espressivi. Vent’anni dopo, quei soggetti sociali erano diventati centrali nel nuovo paradigma produttivo e sperimentavano inedite chiavi di contestazione. Elaboravano la loro musica, le loro narrazioni, le loro pratiche di sabotaggio comunicativo (le famose beffe ai media mainstream organizzate da Luther Blissett, per esempio). Ci sono di certo le linee di continuità lungo le quali si trasmettono memoria, saperi e conoscenze. A Bologna, un tempo, questi canali di trasmissione si attivavano ai margini di un seminario o di una lezione in università, nelle interminabili discussioni in osteria, nelle redazioni di certe riviste autoprodotte o di certe emittenti radiofoniche. Tuttavia, gli elementi di originalità dovrebbero sempre prevalere sulle eredità. Le eredità, spesso, sono fardelli ingombranti e la retorica dei reduci è insostenibile.

Nel podcast c'è molta attenzione alle musiche degli anni 80. Parliamo un po’ della colonna sonora di Babylon Dahlia. (rispondono Luca Micheli e Mattia Liciotti, responsabili del Sound Design della serie)

Quando abbiamo cominciato a immaginare il suono per la storia di Francesca Alinovi, ci siamo fatti guidare soprattutto da due suggestioni: la prima segue il percorso di Francesca Alinovi da Bologna a New York e la seconda ricrea le tinte scure del genere crime.

New York, negli anni 80, era all’apice di un glorioso periodo di ibridazione culturale che vide la fusione di idee provenienti dalla scena artistica del Bronx, dal punk al funk passando per la cosiddetta “No wave”.

Sono protagonisti di questo periodo artisti come James Chance, Africa Bambaataa, Rammellzee e i Gray di Jean-Michel Basquiat. Abbiamo deciso di riprendere i tratti, scuri, atonali, distorti e ripetitivi della No wave per vestire la narrazione.

Se di questa sperimentazione estetica New York era la capitale mondiale, Bologna ne era la capitale Italiana. Per dare un maggiore grado di profondità e di realismo alla storia abbiamo inserito del field recording, registrato tra le vie di Bologna.

Dopo

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