Passaggio in India
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Andrea Caiola
A proposito di questo titolo
A Chandrapore, nell'India stretta sotto la morsa del colonialismo, si fronteggiano l'islam, "un atteggiamento verso la vita squisito e durevole", la burocrazia britannica, "invadente e sgradevole come il sole", e "un pugno di fiacchi indù", in una silenziosa guerra fredda. Fino a quando l'arrivo di una giovane turista inglese non viene a incrinare il fragile equilibrio. Perché Adela Quested, con stupore del clan dei sahib bianchi, non si accontenta dei circoli e delle visite ufficiali: vuole conoscere "la vera India", e trova la guida indigena perfetta nel mite e ospitale Aziz. Ma nelle grotte di Marabar la gita preparata con ogni cura si trasforma per Adela, vittima delle proprie personali inquietudini o di un indegno affronto, in un dramma sconvolgente che arriva fino nelle aule di un tribunale, facendo esplodere pregiudizi, razzismi, contraddizioni. Il ritratto umano e poetico di un paese amatissimo si fa parabola della "segreta intelligenza del cuore" di contro alla protervia della ragione in quello che Forster chiamò "il mio romanzo indiano influenzato da Proust" e che rimane il suo indiscusso capolavoro.
©2025 Mondadori Libri (P)2025 Mondadori LibriGià verso la metà del libro, è diventato uno dei miei romanzi preferiti degli ultimi anni, se non di sempre.
Partendo dall’elemento più facile, è innanzitutto scritto benissimo. Si fondono un lessico ricercato, immagini bellissime e curate, descrizioni non banali ed evocative, una reale ricerca di descrizione ambientale non turistica, ma sincretica fra l’osservazione della realtà e la percezione/stato emotivo personale.
La visione, il paesaggio, gli avvenimenti sono contaminati dall’occhio del personaggio che osserva, dal suo stato emotivo, dal decorso degli eventi.
In alcuni momenti l’atmosfera si fa un po’ rarefatta, misticheggiante e un po’ difficile da cogliere, ma mai escludente. Si devono socchiudere un po’ gli occhi, acquisire quello sguardo da miope e lasciarsi travolgere dalla narrazione e dalle parole.
Oltre all’aspetto tecnico mirabile e altissimo, quello che lascia di stucco e fa esplodere il cervello (in senso positivo) è il contenuto.
Quasi un secolo prima della nostra attuale consapevolezza, l’autore riesce a intercettare le parti più sottili della mentalità colonialista, dalle microaggressioni ai pregiudizi, riuscendo a stanare il problema e inchiodarlo al muro. Con sagacia, umorismo, implacabile satira e senso del giusto adamantino.
Senza però, prendere posizioni da “salvatore bianco”, ma anzi stigmatizzando. E riuscendo invece a cogliere, senza buonismo e moralismo inutile, tutte le contraddizioni e le incomunicabilità delle diverse culture.
Riuscendo a evidenziare, molti decenni prima di altri, atteggiamenti razzisti e di chiusura dietro ad apparenti atteggiamenti generosi o collaborativi.
Ancora una volta, questo mi apre gli occhi sul contesto storico. Se a volte accettiamo interpretazioni della realtà razziste e problematiche, perché andiamo a collocarle in un ambito storico o geografico adeguato, così allo stesso tempo mi rendo conto che si tratta spesso di una giustificazione.
Ad un occhio sensibile, educato e progressista, la parola “n…” era insultante già 100 anni fa. Gli atteggiamenti paternalistici e presuntuosi erano razzisti già negli anni 20 del secolo scorso.
Una pietra miliare.
Soprendente e modernissimo
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